martedì 18 giugno 2013

Responsabilità dei genitori per i danni cagionati dal figlio minore impegnato in una competizione sportiva (in specie una partita di calcio)




Cass. civ. sezione III, sentenza n. 26200 del 6.12.2011
Ritenuto il dovere, ex art. 2048 c.c., dei genitori di impartire ai figli minori una educazione adeguata, personalizzata ed efficace, fondata, soprattutto, sul rispetto delle regole di civile coesistenza nei più diversi rapporti con il prossimo ed, in genere, nello svolgimento di ogni attività extrafamiliare; ritenuto che l'art. 2048 c.c. è costruito in termini di presunzione legale di colpa dei genitori qualora questi ultimi non provino di non avere potuto impedire il fatto lesivo consumato dalla prole; e ritenuto, altresì, che la carenza o l'inadeguatezza dell'educazione e della vigilanza parentali può ricavarsi anche dalla gravità e dalle modalità del fatto illecito commesso dal figlio in seno alle sue relazioni, anche d'ordine sportivo o ricreativo, con i terzi, sono soggetti alla responsabilità prevista dall'art. 2048 c.c. cit., e devono, quindi, risarcire ogni danno provocato dal figlio che, impegnato in una competizione sportiva (partita di calcio ) con coetanei, abbia, a gioco fermo e senza avere subìto in precedenza alcuna aggressione o alcun comportamento sportivo provocatorio o scorretto, colpito, d'improvviso, con una testata violenta e del tutto inaspettata, un componente della squadra avversaria; né vale a liberare dall'obbligo del risarcimento i genitori del minore la loro impossibilità di intervenire nel corso della competizione, o il mancato intervento preventivo, ma del tutto problematico, degli organi sportivi”.

Il fatto. Nel corso di una partita di calcio, un calciatore minorenne veniva colpito con una testata da un giocatore della squadra avversaria – anch’egli minorenne -, mentre il gioco era fermo e senza che in precedenza vi fosse stata alcuna aggressione o fallo di gioco di particolare gravità.
Ciò premesso, occorre anticipare che la sentenza in commento, senza ombra di dubbio, fornisce importanti risposte ad interrogativi in punto responsabilità degli esercenti la potestà genitoriale nel caso di eventi verificatesi durante la partecipazione del figlio minore d’età a competizioni sportive di qualsivoglia genere.
In particolar modo, la Suprema Corte ha affermato la fallacia del ragionamento seguito dalla Corte d’Appello di Bologna, che, in estrema sintesi, aveva ritenuto - in particolari contesti spazio temporali - le azioni lesive poste in essere da un soggetto minore non imputabili al mancato o carente esercizio da parte degli esercenti la potestà parentale del potere di vigilanza, in quanto quest’ultimo concretamente non esercitabile per la materiale assenza del minore dalla sfera di custodia del padre e della madre.
Al contrario, la Corte di Cassazione, pur non volendo affatto disattendere il criterio di ragionevolezza all'insegna del quale era stato pure condotto il ragionamento del giudice di seconda istanza, ha dilatato di molto l’analisi dei fatti di causa, chiarendo in specie la concreta portata degli obblighi di vigilanza e di educazione incombenti sui genitori attraverso la suddivisione tra cd. culpa in vigilando e cd. culpa in educando e riconoscendo a quest'ultima un ruolo preminente (cfr. Cass. 30 ottobre 1984 n. 5564).
Muovendo da tale ottica, la Suprema Corte ha ricondotto la responsabilità in analisi alla portata dell’art. 2048 cod. civ., evidenziando come nei confronti del padre e della madre di un minore non ancora emancipato operi una presunzione iuris tantum di colpa, la quale può essere superata soltanto dalla prova contraria di aver correttamente vigilato al fine di impedire il verificarsi del fatto, ovvero di aver impartito ai propri figli una “buona educazione”.
In altre parole, quanto rileva per la Suprema Corte, infatti, non è tanto il potere di custodia considerato in sé e per sé – peraltro oggettivamente non esercitabile in concreto su un minore fisicamente estraneo alla sfera di controllo dei propri genitori -, quanto piuttosto il generico dovere di educare la prole a cui vanno ricondotte le conseguenze giuridiche ed i conseguenti riflessi risarcitori che il mancato assolvimento di tale obbligo sociale e giuridico produce all'interno dell'ordinamento.
In conclusione, quindi, la trasgressione dell'obbligo di educare la prole configura ipotesi di condotta omissiva, come tale idonea ad integrare una responsabilità iure proprio dei genitori per culpa in educando. A seconda delle condizioni del caso concreto, poi, la forma di responsabilità in esame potrà eventualmente coesistere con quella per culpa in vigilando in capo a coloro che condividono, per ragioni contingenti, il potere di vigilanza unitamente agli esercenti la potestà parentale, senza escludere la diretta responsabilità del minore ex art. 2043 cod. civ.

mercoledì 5 giugno 2013

Il cd. rischio consentito nella pratica sportiva



Cass. Pen., sez. V, n. 7536 del 15.02.2013
L'area del c.d. rischio consentito - integrante causa di giustificazione non codificata, elaborata in considerazione dell'interesse primario che l'ordinamento riconnette alla pratica dello sport - è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali va valutata, in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente, il cui comportamento - nel travalicamento di quelle regole - può integrare tanto la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata, quanto la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco (esclusa, nella specie, l'esimente de quo per l'imputata che, al termine di un partita di calcio, aveva schiaffeggiato un'avversaria, che durante l'incontro l'aveva più volte colpita e spintonata, commettendo numerosi falli di gioco)”.
La recente pronuncia della Corte di legittimità torna ad occuparsi di un tema particolarmente interessante, quale l’operatività della legittima difesa in ambito sportivo con riferimento alla portata del cd. “rischio consentito”.
Nel caso di specie, verso la fine di una partita di calcio, l’imputata, dopo aver subito diversi falli dalla persona offesa, reagiva in maniera veemente, colpendo l’avversaria con uno schiaffo e cagionandole una ferita lacero-contusa al labbro superiore.
Nel giudizio di primo grado, l’imputata era assolta dal reato di lesioni personali perché, ritenuta sussistente la scriminante della legittima difesa, il Tribunale dichiarava il fatto non costituente reato.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna, impugnando la sentenza resa dal Giudice di prime cure, lamentava erronea valutazione del fatto e violazione dell'art. 52 cod. pen. in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, il fatto lesivo è scriminato se commesso durante una tipica azione di gioco, mentre nella specie il colpo inferto alla persona offesa aveva avuto tipiche finalità ritorsive, nulla dimostrando che l'imputata si rappresentasse la probabilità, o anche solo l'eventualità, che l'avversaria intendesse ulteriormente colpirla o spintonarla.
La Suprema Corte, facendo proprie le considerazioni del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bologna, ha annullato la sentenza impugnata, rilevando che il fatto lesivo debba ritenersi scriminato solo nel caso in cui sia commesso durante una tipica azione di gioco, ciò che comporta l’applicazione della causa di giustificazione integrata dal cd. “rischio consentito”. Quest’ultimo, infatti, si configura tutte le volte in cui l’agente ponga in essere una condotta rispettosa delle specifiche norme tecniche del gioco.
Qualora invece il comportamento dell’agente violi le regole tecniche del gioco, sarà onere del Giudice avere specifico riguardo all’elemento psicologico del soggetto agente.
Nel caso di specie, vista la finalità ritorsiva caratterizzante la condotta del soggetto agente, la Corte ha ritenuto di escludere la sussistenza della scriminante della legittima difesa, non essendosi rinvenuta nella fattispecie in esame alcuna esigenza da parte dell’imputata di contrastare il pericolo attuale di un’offesa ingiusta.
Avv. Nicola Schellino

martedì 14 maggio 2013

Vincolo sportivo per calciatori dilettanti




CALCIATORI DILETTANTI.
ATTESA IL PROSSIMO 18 GIUGNO LA SENTENZA DEL TAR LAZIO SULLA POSSIBILE ABOLIZIONE DEL VINCOLO SPORTIVO PLURIENNALE

Il 18 giugno potrebbe rappresentare, per i calciatori dilettanti, una data fondamentale: il Tribunale Amministrativo del Lazio infatti si pronuncerà in merito alla illegittimità o meno del vincolo sportivo.

Com’è noto, il cosiddetto vincolo sportivo è un istituto in base al quale l’atleta dilettante – anche minorenne – sottoscrivendo il famigerato “cartellino”, si lega a vita ad una Società od Associazione Sportiva Dilettantistica: il calciatore infatti è libero di tesserarsi per una diversa società solo qualora quest’ultima provveda a corrispondere alla precedente la cifra richiesta.
Sulla legittimità di tale istituto è intervenuta il TAR Lazio, Sezione III, con la sentenza n. 4103 del 12 maggio 2003, la quale ha avuto modo di chiarire che “la pretesa della società ricorrente al mantenimento del vincolo sportivo con l’interessata successivamente alla scadenza del contratto appare recessiva proprio sul piano dei valori costituzionali”.
Evidenziata la giurisprudenza in materia, non si dimentichi, in ogni caso, che la FIGC all’interno dell’art. 32 bis delle N.O.I.F. sancisce un limite di età – 25 anni – oltre il quale risulta automaticamente sciolto il vincolo sportivo, abolendo dunque in sostanza la possibilità di sottoscrivere legami sportivi a vita. Sul punto, sia consentito evidenziare che, pur essendo stata tale modifica - intervenuta nel 2002 - invocata da più parti, la problematica afferente la legittimità dell’istituto de quo pare inequivocabilmente concretarsi in un problema più generale, consistente nell’impossibilità per i giovani atleti dilettanti di svolgere liberamente l’attività agonistica. È evidente infatti come risulti oggi del tutto limitata e disattesa la realizzazione del principio del libero esercizio dell’attività sportiva, anche in forma dilettantistica, sancito peraltro dalla legge n. 91/1981 all’art. 1. Del pari occorre ancora notare come l’istituto del “vincolo sportivo” si ponga altresì in contrasto con la normativa civilistica in materia di associazionismo, in riferimento alla quale l’art. 24 cod. civ. sancisce invero la possibilità per l’associato di recedere dall’associazione a condizione che non abbia assunto l’obbligo di farne parte per un periodo determinato.
E’ pure doveroso ricordare che il vincolo sportivo, così come oggi strutturato, risulta in aperta contraddizione con il principio sancito dal CONI con delibera n. 1391 del 10.03.2009 in forza del quale viene richiesta una congrua e ragionevole durata del citato vincolo.
Per tutte le ragioni sovrarichiamate, gli operatori del settore ripongono buone speranze nella pronuncia del TAR Lazio all’udienza del prossimo 18 giugno.
Nel caso infatti di sentenza dal contenuto favorevole all’abolizione del vincolo sportivo, si perseguirebbe la strada già tracciata dalla riforma delle N.O.I.F. nel 2002 cui sopra si è fatto cenno, prevedendo quindi un progressivo ulteriore abbattimento dell’età dello svincolo, fino a giungere all’ipotesi – da più parti auspicata – di vincolo annuale o biennale.
Naturalmente, una riforma del genere richiederebbe nel contempo la complessiva e sistematica revisione del sistema dei premi e degli indennizzi previsti in caso di trasferimento di atleti giovani non professionisti, al fine di tutelare altresì il contrapposto interesse legato alla giusta e necessaria tutela dei vivai.
Avv. Nicola Schellino

  

venerdì 10 maggio 2013

Cass. civ. n. 15934 del 20 Settembre 2012 - La figura dell'avvocato procuratore sportivo

Cass. civ. n. 15934 del 20 Settembre 2012
"Non ha diritto al compenso professionale il soggetto che agendo nella duplice veste di avvocato e agente di calciatori abbia stipulato un contratto di diritto comune in violazione di norme dell'ordinamento sportivo. Non può, infatti, ritenersi idoneo, sotto il profilo della meritevolezza della tutela dell'interesse perseguito ex art. 1322, comma 2, c.c., un contratto posto in frode alle regole proprie della FIGC, e senza l'osservanza delle prescrizioni formali e sostanziali all'uopo richieste in favore della serietà degli agenti procuratori e dei diritti del calciatore professionista".
Con la sentenza in esame, la Suprema Corte si è trovata a trattare della legittimità del contratto professionale stipulato tra calciatore professionista ed avvocato in veste di procuratore sportivo.
In altri termini, la Corte di legittimità è stata chiamata a fornire risposta al seguente quesito: è meritevole di tutela un contratto professionale stipulato tra un avvocato anche procuratore sportivo e un calciatore professionista nel caso in cui sia radicalmente differente da quello disciplinato dall'ordinamento sportivo federale?
Ricostruendo i passaggi salienti della pronuncia in analisi, i Giudici hanno ricondotto tale mandato in via generale all'ipotesi di contratto misto normativo, ossia negozio giuridico ove la disciplina di diritto comune deve necessariamente ritenersi integrata con il disciplinare regolamentare della FIGC, di cui il calciatore professionista fa parte.
Sennonché, nel caso di specie, non può dirsi sussistente il benché minimo spazio per operare una etero-integrazione, in quanto il contratto di mandato professionale in questione è stato stipulato in frode alle regole dell'ordinamento sportivo che prevedono delle garanzie formali e sostanziali, del tutto disattese dal legale. Da tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha fatto discendere "l'invalidazione del contratto ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c. per ragioni di ordine pubblico sportivo, secondo una lettura costituzionalmente orientata dall'art. 2 della Costituzione in relazione ai diritti inviolabili del calciatore professionista".
In buona sostanza si è ritenuto sussistente - come nel caso de quo - uno squilibrio del sinallagma negoziale allorquando l'avvocato procuratore sportivo vincoli il calciatore con clausole e con una penale rilevante, difformi dal modello proprio di un disciplinare federale.
Dalla lettura della sentenza in commento, si appalesa dunque un'interpretazione del testo negoziale in chiave di pura equità contrattuale sportiva, di tal ché risulterà incoerente tutto quanto si manifesti in contrasto con i regolamenti federali. 
In definitiva, quindi, non potrà reclamare tutela l'avvocato - procuratore sportivo che abbia stipulato con un calciatore un contratto di mandato professionale in frode alle disposizioni previste in ambito federale.
Avv. Nicola Schellino

mercoledì 14 marzo 2012

Un uomo con il pancione


Con mio sommo stupore, apprendo solo oggi che in Inghilterra un uomo transgender trentenne ha partorito lo scorso anno una bambina. Il giornale britannico “Sun on Sunday” precisa che il trentenne, di sesso femminile alla nascita, nel corso della sua vita aveva deciso di sottoporsi ad un’ operazione che di fatto gli aveva permesso sì di diventare uomo, ma col “beneficio” (termine poco appropriato, me ne rendo conto) di mantenere “attiva” la funzione dell’ utero, organo come noto indispensabile per la procreazione.
Ora, se questa notizia non è frutto della fantasia di qualche brillante giornalista in cerca di notorietà, è opportuno chiedersi fino a che punto l’umanità si spingerà.

In onore di una tradizione liberale che in Italia ha avuto senz’altro minori consensi rispetto ad altre nazioni europee, si sente spesso parlare di matrimonio tra omosessuali nonché di adozione di minori da parte di coppie omosessuali.
Di recente, il Parlamento europeo ha sancito che i governi del Vecchio Continente non devono dare "definizioni restrittive di famiglia" allo scopo di negare protezione alle coppie omosessuali e ai loro figli. Tale posizione è stata espressa nel rapporto sulla parità di diritti tra l'uomo e la donna presentato dalla radicale di sinistra olandese Sophie in’t Veld ed è stato approvato nella giornata di ieri dall’Eurocamera.
In Italia ha fatto storia in materia la sentenza n. 138/20120 della Corte Costituzionale la quale ha affermato che “L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
In buona sostanza, con questa pronuncia, la Consulta, interpellata in merito alla costituzionalità di alcuni articoli del Codice Civile che, di fatto, a causa della terminologia utilizzata, impediscono il matrimonio tra individui dello stesso sesso, ha affermato che le coppie omosessuali devono comunque vedere soddisfatta l'aspirazione all'accesso a determinati diritti, lasciando sul punto ampia discrezionalità al Parlamento.

Ciò chiarito, il caso in questione mi pare differisca da considerazioni legate all’ammissibilità futura dei matrimoni omosessuali in Italia.
Noi ad oggi stiamo ancora a discutere sulla legittimità delle coppie di fatto; qui si parla di una donna, se bene ho inteso, che decide di cambiare sesso. Nulla di così strano, se non fosse che diiventata uomo, chiede (ed ottiene) di mantenere utilizzabile il proprio utero, non precludendosi pertanto la possibilità in futuro di partorire. Ma io mi chiedo. Ma non era diventata uomo?! Non aveva scelto di essere uomo, abbandonando il sesso femminile?
Un conto è discutere circa la  regolamentazione delle unioni omosessuali, annoverandole tra le formazioni sociali finalizzate “a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”; sul punto si può essere d’accordo oppure no.
Senza dubbio, ben altro discorso è domandarsi se una donna, divenuta per sua scelta uomo, possa dare la vita.
O meglio se un uomo, abbandonato per sua scelta il sesso femminile, possa dare la vita.


martedì 13 marzo 2012

OMICIDIO PROCOPIO: ASSOLTO IL GIOIELLIERE

http://ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2012/03/12/visualizza_new.html_130986557.html

La pronuncia di assoluzione emessa dal Gup di Torino in ordine al procedimento penale a carico del sig. Pierangelo Conzano rappresenta senz'altro uno snodo fondamentale per comprendere a pieno fino a che punto può spingersi la scriminante della legittima difesa.
Mi spiego meglio.
La legittima difesa è in effetti una causa di giustificazione (o scriminante) prevista dal nostro codice penale all'art. 52 che così recita "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa". Per la sua sussistenza è necessario pertanto che la reazione ad una aggressione debba essere caratterizzata da necessarietà e soprattutto proporzionalità in rapporto all'offesa.
Nel caso di specie, occorre tenere in considerazione la novella legislativa intervenuta con la riforma del 2006 che di fatto ha introdotto una presunzione assoluta (iuris et de iure) di proporzione fra difesa e offesa, nei casi di reazione avvenuta durante la commissione di delitti di violazione del domicilio ed in presenza di un pericolo di aggressione fisica. Ciò che ancor più rileva è la considerazione che al domicilio sono stati equiparati i luoghi di esercizio di attività economiche, quali - per tornare al sig. Conzano - la gioielleria.
Ed in effetti all'indomani della novella, una parte dei docenti di diritto e procedura penale hanno sottoscritto un manifesto di denuncia della riforma indicando il rischio di un ritorno al far west e l’abbandono del solco profondo della nostra civiltà giuridica. Si è sottolineato infatti che il legislatore non ha tenuto conto che tale situazione possa divenire foriera di disordini, consentendo al cittadino di sentirsi in casa propria in una “zona franca” e di conseguenza legittimato ad usare armi anche in casi in cui non ci sarebbe affatto motivo.
Ma veniamo al dunque.
Il gioielliere Pierangelo Conzano, il 10 agosto scorso sparò un solo colpo mortale ad un rapinatore, Francesco Procopio, di 35 anni, il quale, munito di una pistola giocattolo, era entrato nella gioelleria per compiere una rapina. Tratto a processo, il pm aveva chiesto una condanna di un anno e due mesi di reclusione per omicidio colposo per eccesso di legittima difesa.
L'ANSA riporta che " l'assoluzione per legittima difesa si e' basata sulla ricostruzione minuziosa di quanto accaduto: secondo quanto e' emerso dal filmato dell'impianto di sorveglianza del negozio, Procopio era entrato all'interno della gioielleria, che aveva ispezionato piu' volte prima di quel giorno, insieme ad un complice, Iaris Iacono, che oggi ha 32 anni. Quest'ultimo si era finto un normale cliente per distrarre il gioielliere quando, ad un certo punto, Procopio ha tentato di salire sul bancone dell'esercizio.
A quel punto e' partito il colpo che lo ha centrato al braccio destro. Procopio ha poi tentato di uscire dal negozio, ma e' rimasto bloccato all'interno della doppia porta mentre Conzano e Iacono lottavano per il possesso dell'arma. Secondo quanto documentato dal filmato, passarono due minuti tra lo sparo e il momento in cui Procopio pote' uscire dalla gioielleria.
L'uomo percorse poi un centinaio di metri a piedi prima di stramazzare al suolo in strada, ormai dissanguato dopo che il proiettile gli aveva reciso l'arteria omerale. Iacono, invece, rimase all'interno della gioielleria fino all'arrivo dei carabinieri che lo arrestarono. E' stato condannato per rapina, in un altro procedimento, a una pena di un anno e mezzo di reclusione."
Cosa significa?
Nel caso di specie ha giocato un ruolo fondamentale la ricostruzione operata dagli inquirenti che di fatto ha evidenziato come il colpo mortale sia stato esploso in condizioni tali da giustificare lo sparo. In altre parole, il Giudice ha ritenuto l'operatività concreta della scriminante di cui all'art. 52 c.p.poiché ha considerato sussistente il "pericolo attuale" e soprattutto necessaria e proporzionata la reazione operata dal gioielliere all'aggressione dei malintenzionati.
In conclusione va comunque rimarcato - a scanso di equivoci - che, anche dopo la novella dell’art. 52 cp, chi spara al ladro in fuga (uccidendolo) non è "giuridicamente" giustificabile, essendo venuto meno ogni pericolo di aggressione e, conseguentemente, ogni esigenza di protezione dei propri beni.
Nonostante le aspre critiche della dottrina e l’idea permissivista di certi interpreti, va detto che la riforma introdotta nel 2006 fornisce un supporto al giudicante, evitando pericolose discrepanze interpretative: infatti l’introduzione della valutazione della proporzionalità basato su una presunzione iuris et de iure riduce di molto la discrezionalità del giudice.
Del pari, notevole importanza occorre fornire a tale sentenza che senza ombra di dubbio genererà aspre e mai sopite polemiche, ma che nel contempo ha il merito di essere conforme alla ratio del dettato codicistico.